IL GIUDICE DELLE INDAGINI PRELIMINARI Visti gli atti del procedimento penale n. 10243/90 rg. gip. (n. 40760/90N rg. p.m.); PREMESSO IN FATTO che in data 24 settembre 1990 Fagotti Giuseppe e Andreocci Cosimo e il pubblico ministero presso la pretura circondariale di Roma presentavano richiesta congiunta di applicazione della pena nel corso delle indagini ai sensi degli artt. 444 e segg. e 549 del c.p.p. di giorni venti di arresto e lire otto milioni di ammenda, con il beneficio della sospensione condizionale dell'esecuzione della pena in ordine al reato previsto dall'art. 17, lett. b), della legge 28 gennaio 1977, n. 10, sostituito dall'art. 20, lett. b), della legge 28 febbraio 1985, n. 47, per avere abusivamente costruito, in assenza di concessione edilizia, un manufatto in muratura delle dimensioni di metri 32 x 15,50 x 3 di altezza, sito in via Presenzano, 9 (gia' via Laurentina, km. 16,500). Accertato in Roma il 24 ottobre 1983, 1 dicembre 1983, 30 gennaio 1984, 15 febbraio 1984, 8 marzo 1984, 25 marzo 1986, 25 maggio 1988; PREMESSO IN DIRITTO che questo giudice, ritiene che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti sia una sentenza di condanna e che come tale debba essere emessa in pubblica udienza e non in camera di consiglio e tale eccezione, attenendo alle forme con le quali va celebrato il giudizio, e' in ogni caso rilevante; che non ricorrono nel caso in esame i presupposti di una pronunzia di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 del c.p.p. perche': a) non vi e' alcuna prova evidente di innocenza degli imputati; b) il reato ascritto non e' estinguibile per amnistia, ai sensi del d.P.R. n. 75/1990, perche' le opere abusive sono di cospicue dimensioni; c) esso non e' estinguibile ai sensi dell'art. 38 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (cd. condono edilizio), perche' le opere non erano ultimate entro il primo ottobre 1983 (epoca in cui erano appena iniziate) come risulta ampiamente dimostrato dalle fotografie in atti e dai numerosi sequestri operati nel corso degli anni e conseguentemente e' provato che le domande di condono in atti sono false; d) non sussistono altre cause di estinzione del reato; che la pena concordata dalle parti e' congrua; che puo' concedersi il beneficio della sospensione della pena anche subordinatamente alla demolizione delle opere abusive; che deve essere emessa la sanzione amministrativa della demolizione delle opere abusive ai sensi dell'art. 7, ultimo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47; che tale sanzione e' ammissibile perche' la sentenza pronunziata ai sensi dell'art. 444 e' sentenza di condanna; O S S E R V A I. - Ad avviso di questo giudice va sollevata di ufficio la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 447, 448 e 563 del c.p.p. in relazione al combinato disposto degli artt. 2, primo comma, prima parte, e punto 45 della legge 16 febbraio 1987, n. 81 e art. 6, primo comma, della legge 4 agosto 1955, n. 848, per contrasto con gli artt. 76 e 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono che nella fase delle indagini preliminari la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell'art. 444 del c.p.p. sia emessa in pubblica udienza. II. - Occorre premettere qualche considerazione in ordine alla natura della sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 del c.p.p. Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione la sentenza in questione non e' una pronunzia di condanna (sezione prima, 19 febbraio 1990, Migliardi); essa ha in particolare sostenuto il principio che la sentenza de quo non comporta un accertamento della responsabilita' dell'imputato in ordine al reato addebitatogli; pertanto non e' inquadrabile tra le sentenze di condanna, bensi' nella categoria delle "sentenze in ipotesi", precisando che l'interpretazione data dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 66/1990, incidenter tantum, non affermava in maniera precisa che potesse trattarsi di sentenza di condanna, posto che l'accordo tra le parti non puo' essere sostitutivo dell'accertamento della verita' che e' compito del giudice. In sintesi l'assunto della Corte di cassazione si fonda sui seguenti punti: 1) la relazione parlamentare sul nuovo codice afferma che la sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 del c.p.p. prescinde dalla responsabilita' del reo; 2) l'art. 445 del c.p.p. prevede che tale sentenza non abbia efficacia nei giudizi civili o amministrativi; 3) l'art. 445 citato si limita ad equiparare tale sentenza, per alcuni effetti, ad una pronunzia di condanna e cio' dimostra che il legislatore non l'ha voluta considerare una sentenza di condanna. Dissentendo dall'orientamento di cui sopra, ritiene questo giudice che la natura di pronuncia di condanna nel caso di sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 del c.p.p. si evince innanzitutto dal rilievo che non puo' infliggersi una sanzione penale, tanto piu' a pena detentiva, se non in virtu' del principio della responsabilita' personale accertata dal giudice ai sensi degli artt. 27, primo comma, 25 e 101 della Costituzione. Vi e' un'altra ragione per la quale la sentenza pronunziata ai sensi dell'art. 444 del c.p.p. e' e non puo' essere che di condanna: l'art. 6, primo comma, primo periodo, della legge 4 agosto 1955, n. 848, di ratifica della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, stabilisce che "ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente ed imparziale, costituito dalla legge, che decidera'... sul fondamento di ogni accusa in materia penale elevata contro di lei". Spetta dunque solo al giudice la valutazione della responsabilita' penale e non puo' essere emessa sentenza di condanna se non dopo che il giudice abbia valutato la fondatezza delle accuse. Ritiene questo giudice che la natura di sentenza di condanna della pronunzia emessa ai sensi dell'art. 444 del c.p.p., gia' adombrata nella sentenza n. 66/1990 di codesta Corte costituzionale, sia stata definitivamente chiarita con la sentenza n. 313/1990, nella quale si afferma che il giudice ha il potere-dovere di accertare la responsabilita' dell'imputato e conseguentemente valutare la congruita' della pena rispetto alla fattispecie concreta, previa verifica della sussistenza delle circostanze, della congruita' del giudizio comparativo ai sensi dell'art. 133, anche in funzione del fine sia retributivo sia rieducativo che la pena deve avere. III. - Una volta chiarito che la sentenza de quo e' una vera e propria sentenza di condanna, assume rilievo l'eccezione di incostituzionalita' oggi sollevata. Tale sentenza nel procedimento pretorile e' emessa in camera di consiglio per il rinvio che l'art. 563, primo comma, del c.p.p. opera alle norme per i reati di competenza del tribunale, in quanto applicabili. Trattandosi di sentenza che accerta la responsabilita' dell'imputato, ad avviso di questo giudice deve essere emessa in conformita' dell'art. 6 della legge 4 agosto 1955, n. 848, di ratifica ed esecuzione della Convenzione per i diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, il quale prevede che "il giudizio deve essere pubblico, ma l'ingresso nella sala di udienza puo' essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell'interesse della moralita', dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una societa' democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita delle parti in causa, o in quella misura ritenuta strettamente indispensabile dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicita' potesse ledere gli interessi della giustizia". Dalla formulazione della norma emergono due punti essenziali: a) che la pubblicita' dell'udienza e' prevista per ogni tipo di giudizio nel corso del quale debba emettersi una sentenza con la quale si dichiara la colpevolezza dell'imputato; b) che la limitazione alla pubblicita' del giudizio va valutata in concreto dal giudice, in relazione alla singola fattispecie sottoposta al suo esame, ma non puo' essere applicata in via generale ad un determinato rito processuale. Il giudizio che conduce ad una sentenza di condanna, sia pure a pena concordata dalle parti e sia pure nella fase delle indagini preliminari, non puo' sottrarsi alla pubblicita' dell'udienza, tipica di ogni ordinamento democratico. Ne' vale sostenere che proprio la sottrazione alla pubblicita' e' un aspetto premiale dell'istituto in esame, perche' il fine precipuo della pubblicita' dell'udienza e' quello della garanzia di trasparenza del processo nei confronti sia dell'imputato che della collettivita'. Pertanto le norme del codice sottoposte oggi al vaglio della Corte appaiono in contrasto con l'art. 6 della citata convenzione internazionale che e' legge dello Stato in seguito alla ratifica. Ne' puo' ritenersi che il legislatore delegante abbia inteso abrogare implicitamente la norma della legge di ratifica, perche', anzi, l'art. 2 della legge delega, al comma 1, detta una direttiva "cornice", di portata generale, cui le altre direttive formulate nel corso del medesimo articolo debbono uniformarsi: quest'ultimo infatti afferma che: "il codice di procedura penale deve attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale". La direttiva di cui al punto 45 stabilisce che l'imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice, fino all'apertura del dibattimento, l'applicazione della pena concordata e che il giudice decide in udienza con sentenza inappellabile; la direttiva non precisa tuttavia se l'udienza debba essere pubblica, ma cio' appare implicito in virtu' di quanto detto al primo comma dell'art. 2. Il legislatore delegato ha interpretato il punto 45 della direttiva nel senso che l'applicazione della pena su richiesta delle parti possa essere effettuata in udienza camerale, senza tener conto della direttiva primaria posta dal primo comma dell'art. 2 della medesima legge delega; ma, in tal modo, ha ecceduto dalla delega postagli dal comma 1 dell'articolo citato, cosi' violando il disposto dell'art. 76 della Costituzione e creando disparita' di trattamento tra giudicabili, in violazione dell'art. 3 della Costituzione, perche' la medesima pena per un identico reato puo' essere inflitta ad un imputato senza la garanzia della pubblicita' dell'udienza rispetto ad un altro imputato giudicato con rito ordinario.